La cicerchia
Lathyrus sativus, la cicerchia o pisello d’India, o “chichierchia” come si dice in dialetto è un legume appartenente alla famiglia delle Fabaceae, Leguminosae, diffusamente coltivato per il consumo umano in Asia, Africa orientale e limitatamente anche in Europa, come l’Italia dove il consumo è limitato ad alcune aree centro-sud. È una pianta annuale, muore dopo la fioritura e la fruttificazione, che solitamente coinvolge quel periodo dell’anno che va da febbraio a maggio.
Etimologia
Il nome di una specie, secondo il sistema di nomenclatura linneano, è sempre scritto in corsivo ed è composto dal nome del genere a cui appartiene la specie, con la prima lettera maiuscola: Lathyrus, nome dato da Teofrasto a leguminose simili, allievo di Aristotele e padre della botanica; mentre la seconda parte del nome di una specie è l’epiteto specifico, l’aggettivo da associare al genere in modo da identificare in modo univoco quella categoria di organismi: sativus, che deriva dal verbo latino [sĕro, sĕris, serui, sertum, sĕrĕre = seminare], proprio ad indicare la sua domesticazione e il suo impiego.
In natura
Nonostante sia una pianta principalmente coltivata, la cui origine selvatica è ancora incerta, è presente allo stato spontaneo in tutta Italia, ma come alloctona naturalizzata. Questo significa che non fa parte della naturale e originale vegetazione spontanea italiana, ma che riesce comunque a crescere fuori dagli orti, nel momento in cui i semi capitano in natura. In Campania, in forma spontanea, non si osserva più dal 2018.
Qualità
Lathyrus sativus è una pianta che tollera particolarmente bene l’aridità, la mancanza di acqua e suoli poveri e semiaridi, inoltre è resistente ai parassiti e all’attività distruttiva degli insetti, e ha un’alta produttività di semi. Grazie alla fissazione dell’azoto, capacità tipica delle leguminose, è molto ricca di proteine rispetto alle altre piante usate a scopo alimentare; in particolare lo sono i suoi semi, la parte commestibile. Riesce molto bene a superare condizioni ed eventi climatici avversi alle normali coltivazioni, come inverni troppo secchi o alluvioni, per cui spesso rappresenta un’ottima fonte di approvvigionamento, soprattutto nelle zone marginali di bassa precipitazione.
Tra le caratteristiche morfologiche troviamo delle radici molto penetranti nel terreno, tanto che spesso viene coltivata al limite del terrazzamento per aumentare la stabilità. Le radici profonde permettono alla pianta di sopravvivere anche nei suoli più poveri e li arricchisce di azoto grazie alla simbiosi con batteri azoto fissatori che ne colonizzano le radici. Questo è un vantaggio proprio delle leguminose, una famiglia di piante a fiore tipicamente dall’alto contenuto proteico.
Il confronto delle qualità alimentari con gli altri legumi eduli ha rivelato un contenuto proteico in percentuale maggiore dei ceci e dei piselli ma minore dei lupini, una discreta quantità di lisina ma una carenza in metionina, sebbene il tutto dipenda dalla disponibilità di minerali che il suolo offre.
Batteri azotofissatori e proteine
Una simbiosi è una stretta convivenza fondata su un equo scambio e una collaborazione reciproca per la sopravvivenza. I batteri azotofissatori trasformano l’azoto atmosferico, risorsa di cui spesso i suoli sono poveri, in composti organici utilizzabili dalle piante per la costruzione delle proteine, e in cambio prelevano dall’ospite composti del carbonio e sali minerali.
Le proteine sono tra i costituenti di base della vita, sono biomolecole che contengono azoto. Ogni organismo animale ha la capacità di costruirle a partire però da proteine o composti organici già formati, quindi prelevandoli da altri organismi; per esempio noi esseri umani, in quanto eterotrofi, assumiamo proteine attraverso l’alimentazione, le demoliamo e ricaviamo la materia prima per assemblare le nostre. Gli autotrofi, come le piante, riescono invece a sfruttare autonomamente composti inorganici, prelevandoli dall’ambiente circostante, quindi dipendono fortemente dalle risorse che l’ambiente offre.
Neurotossina
Spesso capita che le piante spendano molta energia nello sviluppo di meccanismi di difesa dai parassiti o in generale dagli animali, come le spine o la produzione di sostanze urticanti e velenose. Lathyrus sativus produce una particolare neurotossina, acido B-diaminopropionico, il cui ruolo biologico però è ancora incerto. La quantità di neurotossina nelle diverse parti della pianta dipende fortemente dallo stress ambientale durante la crescita, come il perdurare della mancanza di acqua. Ad ogni modo, non è l’unica pianta a produrla, ma dato il suo impiego a fini alimentari può risultare un pericolo alla salute umana.
Purtroppo, infatti, quando la cicerchia rappresenta l’ingrediente principale della dieta, in tempi lunghi, diversi mesi o un anno, porta al neurolatirismo, un grave disturbo al sistema motorio, che può provocare paralisi anche irreversibili.
Gli studi sperimentali sull’effetto della neurotossina hanno rivelato che l’incorrere dei sintomi riguarda diversi gruppi di animali vertebrati, oltre l’uomo, come i roditori o i cavalli. Questi ultimi presentano una particolare sensibilità alla malattia, tanto che la contraggono in soli 10 giorni di dieta a base di cicerchia.
Le prime manifestazioni riguardano difficoltà nell’utilizzo degli arti inferiori, crampi e senso di pesantezza e debolezza nelle gambe, si tratta ancora di sintomi reversibili. È stata osservata una maggiore frequenza di questo tipo di neurolatirismo nei maschi giovani della nostra specie.
La causa sta nell’inibizione di enzimi coinvolti nella produzione di collagene, e quindi in una malformazione nel tessuto connettivo tra muscoli e ossa, che può coinvolgere anche la colonna vertebrale, portando alla paralisi. Ad ogni modo, non si tratta di una degenerazione neuronale.
Soluzioni e detossificazione
Prima di tutto è doveroso chiarire che la presenza della cicerchia in una dieta variegata ed equilibrata non ha alcun effetto dimostrato. Inoltre semplici accorgimenti prima di mangiarla posso progressivamente indurre la neurotossina a trasformarsi nel suo isomero chimico, che non ha effetti neurotossici, così da ridurre fortemente le quantità.
Sciacquare semplicemente i semi può portarne una leggera riduzione. Lo stesso effetto ha scaldarli leggermente.
Lasciare i semi in ammollo per 3 minuti in acqua fredda, la riduce del 30%. Se fatto con acqua calda, ancora di più.
Bollire i semi ne rimuove fino al 70-80%. Se successivamente vengono colati, scartando l’acqua, la neurotossina si riduce di un altro 10%, raggiungendo il 90% di neurotossina in meno.
Riassumendo, i due metodi principali per la detossificazione dei semi risiedono nell’acqua e nel calore.
Esperimenti di ibridazione con altri legumi, stanno cercando di ottenere una specie con pari proprietà nutrizionali ma con bassissime quantità di neurotossina, in modo da rendere sicura la sua consumazione.
Bibliografia: Lathyrus sativus (grass pea) and its neurotoxin ODAP (Yan, Li et al.)